Il procuratore ci racconta del calcio che fù e dell’attualità. “Mi auguro che la Roma punti su Luis Enrique anche il prossimo anno”.

Dario Canovi (foto dal web)

C’è stato un tempo in cui, in Italia, il calcio era un gioco, in cui le maglie andavano dall’uno all’undici e i giocatori non uscivano con le veline. Un tempo in cui si sapevano a memoria le formazioni, un tempo in cui ascoltavamo le partite alla radio. Dario Canovi quel calcio lo conosce bene: è procuratore di calciatori dal 1974 e, da allora, è sempre rimasto in questo sport. Nella sua carriera ha visto campioni, presidenti, trattative di mercato e storie curiose: le più interessanti le ha raccolte in un libro, “Lo stalliere del re” (ed. Dalai) uscito da poco, che abbiamo letto e apprezzato. Anzi, lo consigliamo vivamente ai nostri lettori.

Abbiamo intervistato l’avvocato Canovi per dare, insieme a lui, un’occhiata indietro a quel calcio romantico che noi di “Stromberg non è un comodino” amiamo. Ed è stata anche un’occasione per un’analisi dell’attualità del nostro campionato.

Dario, quale è stata, nella sua lunga carriera, la trattativa più difficile da portare a termine positivamente?

“Sicuramente quella di Cerezo alla Sampdoria, oppure quella di Thiago Motta al Paris Saint Germain, anche se devo giustamente dividerne il merito con mio figlio Alessandro.

Quale è stato il presidente con il quale ha lavorato meglio?

“Io dico sempre di aver avuto quattro presidenti: Viola e Sensi per la Roma, Pozzo e Mantovani”.

E quello con cui era più difficile trattare?

“Ho fatto buoni lavori anche con Borsano, anche se poi ha avuto problemi. Per esempio non ho mai fatto trattative con Zamparini, ma non perché è difficile, proprio perché non ce n’è mai stata l’occasione. Sicuramente uno con cui è difficile trattare è Lotito: è uno tosto”.


Quale giocatore avrebbe voluto portare in Italia, ma non è mai riuscito a farlo?

“Uno che avrei sicuramente voluto portare in Italia, ma purtroppo era un po’ troppo avanti con l’età, era Gordillo, il terzino sinistro del Real Madrid, che per me è probabilmente il miglior crossatore, insieme a Garrincha, che io abbia mai visto giocare sui campi di calcio di tutto il mondo. Un altro era Thiago Alcantara del Barcellona, il figlio di Mazinho: due anni fa era svincolato e l’ho proposto a quasi tutte le squadre del nostro campionato, ma non mi è riuscito di farlo arrivare qui”.

Nel suo libro lei accenna alla trattativa tra Zico e la Roma. Sembrava fatta, poi Viola prese Falcao. Chi era la prima scelta tra i due? Come andarono le cose?

“Onestamente non ho mai saputo se la Roma prese Falcao perché non riusciva a prendere Zico o se il suo vero obiettivo fosse proprio Paulo. Io ho assistito Falcao un po’ di tempo dopo, non in quel momento. Ho avuto sempre l’impressione che Zico fosse un falso obiettivo, che il vero giocatore voluto dalla Roma fosse Falcao, perché era perfetto per Liedholm. Era il tipo di giocatore che lui prediligeva e, oltretutto, era del suo stesso segno zodiacale, Bilancia. La cosa incredibile, tra l’altro, è che io sono del 4 ottobre, Nils dell’8, Cristoforo Colombo (il procuratore di Falcao all’epoca della trattativa) del 12 e Paulo del 16! Questa cosa, in quel periodo mi colpiva molto perché, conoscendo Liedholm, sono sicuro che a questi aspetti ci pensava”.

Un’altra curiosità. Lei conosceva bene il presidente Viola: è vero che lui avrebbe voluto portare alla Roma dalla Lazio D’Amico e Giordano?

“Verissimo. Io assistevo Giordano allora e, come ha ribadito lui stesso pochi giorni fa, il presidente voleva acquistare lui e Vincenzo”.

Perché Viola non concluse le trattative? Per timore della piazza?

“Nel libro racconto come provò a prendere anche Dell’Anno dalla società biancoceleste. No, lui avrebbe convinto anche i tifosi che era la mossa giusta, se fosse riuscito a concludere gli ingaggi dei giocatori. Quello che successe è, semplicemente, che Bruno andò al Napoli, che all’epoca era la squadra di Maradona, un club di grande richiamo, mentre D’Amico è un uomo che è sempre stato attaccato alle sue radici, per cui è rimasto laziale a vita, nonostante abbia avuto altre possibilità. Tra l’altro, io assistevo anche Vincenzo”.

Come si trova nel calcio di oggi?

“Per fortuna ho due figli che si adattano meglio al calcio odierno, nel senso che hanno una mentalità più moderna della mia”.

Lo vede così diverso dal calcio di cui ci ha parlato?

“Sicuramente è più business di allora. A quei tempi, i presidenti erano dei mecenati, o quasi, adesso sono quasi sempre uomini d’affari. Ormai il calcio è diventato un’impresa commerciale, mentre prima era un’estrinsecazione di uno stato d’animo, di una passione, del tifo. I presidenti erano quasi sempre tifosi; poi, pian piano, si è cominciato a vedere presidenti che, pur non essendo della città, acquistavano un club. Non lo hanno fatto più per passione verso quella determinata squadra, forse per il calcio in genere. Ad esempio Zamparini, Preziosi, lo stesso Della Valle, sono entrati nel calcio, ma non erano tifosi delle squadre che hanno comprato. Basti pensare che Zamparini era proprietario del Venezia, poi voleva prendere in mano l’