Voleva e doveva essere l’erede del pibe de oro, ma il sogno si trasformò in incubo. Ortega, in Italia nella Samp e nel Parma, si è poi smarrito nell’alcool!

Ariel Ortega

Ariel Ortega (foto: calcionapoletano.it)

Quante volte, nella vita, un figlio rimane schiacciato dalle ambizioni o semplicemente dal confronto spietato col padre? Immaginate un genitore, ma potrebbe essere anche un fratello maggiore, che ha avuto per anni e anni un successo professionale e umano meritandosi elogi e apprezzamenti. Ma se il figlio, catapultato nello stesso lavoro e con la carriera già avviata, non dimostra carisma, capacità e talento che succede? L’iniziale appannamento lascia presto spazio alla delusione e alla depressione, e quel nome paterno che all’inizio sembrava uno slancio e una spinta diventa una croce pesante e insopportabile. Rimanere stritolati e vivere nell’ombra di un paragone troppo ingombrante: succede anche nel calcio. La più grande sfortuna del funambolo argentino Ariel Arnaldo Ortega è stata quella di nascere pochi anni dopo, 14 per l’esattezza, uno dei migliori calciatori di tutti i tempi, quel Diego Armando Maradona che per lui divenne quasi un incubo e un ossessione.

Quando Diego deliziava l’Italia e il mondo con le sue magie e i suoi colpi da campione, il piccolo Ariel (Ledesma, 4 marzo 1974) cresceva e si divertiva nelle giovanili del River Plate. Dire che era promettente era poco; Ortega aveva un dribbling sopraffino e toccava virtuosamente la palla, con classe e disinvoltura. Bravo sia nel trovare la porta sia nel servire i compagni smarcati, Ariel era un trequartista alla Maradona


Ci siamo; arrivarono subito, e troppo prematuramente,  giudizi lusinghieri. Forse era naturale farli, visto che le qualità del giovanotto erano sotto gli occhi di tutti. Se aggiungiamo che Ortega indossava sempre la casacca numero 10 e  ricordava anche fisicamente Maradona, stessa altezza(meno di 170 centimetri), stessa zazzera nera e quel medesimo sguardo da simpatico burlone, ecco che il paragone calzava a pennello. Fu soprannominato “Il Burrito”, che vuol dire l’Asinello: l’estroso Ariel vide anche in questo un altro segno divino. Sicuro, perché l’Asinello (o meglio il Ciuccio) era proprio il simbolo del Napoli di Maradona… Ortega, intanto, col River vinceva diversi campionati guadagnandosi la nazionale e un ingaggio in Europa. Il suo primo club fu il Valencia, in Spagna.

Il processo di crescita era stato certamente importante, ma purtroppo per Ariel si inceppò proprio sul più bello. Nella Liga spagnola, con difensori ruvidi e tatticamente smaliziati, Ortega trovò pane duro per i suoi denti e navigò a vista per un paio si stagioni. Le capacità non erano in discussione, ma il suo problema era quello di non accontentarsi mai: un esempio era l’ottusità nel cercare il dribbling, sempre e in ogni caso. Questo narcisismo eccessivo creò intorno a lui un alone di diffidenza, insieme all’accusa di presunzione e saccenteria… Insomma, in poche parole a volte essere bravi non basta, se il contesto non è accompagnato e supportato da altre qualità. Dopo la Spagna, arrivò l’Italia e grossomodo si presentarono gli stessi problemi.

La Sampdoria, che per Ortega sborsò la bellezza di 23 miliardi delle vecchie lire, credeva molto in lui ma si ritrovò come la sfortunata protagonista di uno di quei romanzi americani del secolo scorso: delusa e tradita… Del trequartista geniale e di gol alla Maradona non si ebbero notizie; c’era soltanto un ragazzino triste e svagato, spesso impreciso e maldestro. Realizzò 8 gol in 27 partite, ma non bastarono per evitare un’amara retrocessione (16° posto) in serie B. L’anno successivo Ariel passò al Parma. Coi ducali, che stavano comunque vivendo un periodo di appannamento dopo tante gloriose vittorie, Ortega rafforzò la sua poco lusinghiera immagine di “campione di carta velina”… Per lui anche qualche piccolo guaio muscolare (la sfortuna, del resto, è brava nel girare il coltello nella piaga) e un curriculum finale di appena 18 presenze e 3 gol.

L’altra lacuna più evidente di Ortega fu poi quella di eclissarsi nei momenti topici della sua carriera: ogni volta che c’era la possibilità di emergere o di ritrovare smalto, lui sprofondava. Durante i campionati del mondo del 1998 in Francia, si fece espellere per una testata ad un avversario durante il quarto di finale Argentina-Olanda. Il suo gesto, giustamente sanzionato, fu decisivo per l’eliminazione dei sudamericani che, un minuto dopo, furono trafitti da Bergkamp: 2-1 e tutti a casa. Del resto gli argentini, nonostante gli 87 gettoni (17 reti) e i 3 mondiali disputati, lo hanno spesso criticato sia come atleta che come uomo. Tanti i rimpianti e le delusioni per i suoi comportamenti, per non parlare di polemiche e veleni che spesso lo vedevano protagonista. Quando provò l’avventura in Turchia, sponda Fenerbahçe, divenne famoso soprattutto per un suo ammutinamento piuttosto che per qualche giocata di livello. Un bel giorno Ortega, dopo un impegno con la nazionale, si rifiutò di rientrare in Turchia mettendo nel piatto le scuse più puerili: la stanchezza, un misterioso infortunio, uno sciopero dei voli… Insomma, scoppiò un casino con i dirigenti del Fenerbahçe che fecero causa all’argentino, che in effetti aveva quattro anni di contratto. Morale della favola: l’Uefa squalificò Ortega per diversi mesi, obbligandolo a pagare una multa superiore ai 10 milioni di dollari! Un’altra mazzata per il morale di Ariel, già mortificato e frustrato per le tante occasioni perse in passato.


Tempo dopo, Ortega tornò ancora a far parlare di sé nei campi di calcio argentini, ma perennemente in bilico fra la mediocrità e la nostalgia. Stendiamo un velo pietoso sul grave problema che rischia ancora oggi di affossarlo definitivamente, quello della dipendenza dall’alcool. Ariel ha commesso tantissimi errori, ma è stato anche il primo a pagarne le conseguenze e spesso con gli interessi. Resta in tutti noi l’immagine di un calciatore sbiadito e fallito, che probabilmente la notte fa fatica a prendere sonno. Ma non per i postumi di una sbronza: Ortega continua ancora a chiedersi come mai non sia riuscito a diventare come Diego Maradona! E non trovare mai la risposta rappresenta la condanna più crudele e feroce…

Lucio Iaccarino