Regista difensivo di un calcio epico,vinse tutto con l’Inter di Herrera. Toscano purosangue, solo il destino e la malattia impedirono gli stessi trionfi in panchina!

Armando Picchi (foto nerazzurriworld.com)

Armando Picchi (foto nerazzurriworld.com)

Come nelle favole senza lieto fine, la nostalgia risiede nell’epilogo del racconto. Ed è comunque fondamentale sapere come, nella vita degli sportivi, il destino è già scritto: nel bene e nel male. Il nostro eroe aveva appena terminata una carriera di calciatore nella quale aveva vinto praticamente tutto: si era quindi lanciato in quella di allenatore, dove aveva tutte le carte in regola per raccogliere altri successi.

Subito una salvezza con il Livorno, poi nel 1970 la chiamata dalla Juventus di Allodi e Boniperti. Armando Picchi prese in mano la squadra il 25 luglio, portò i suoi ragazzi cinque giorni ad ossigenarsi al Sestriere e li condusse fino al 16 febbraio 1971. Quel giorno, al termine dell’allenamento, con la busta gialla delle radiografie sotto il braccio, andò all’ospedale dove i medici lo ricoverarono d’urgenza. Armando era, purtroppo, gravemente malato, afflitto da un male incurabile.

Morì tre mesi più tardi, ma solo in un secondo momento si seppe che l’origine del male poteva risalire a un violento trauma di gioco che Picchi aveva subito in Bulgaria nel 1968. Per la cronaca, quella era la sua dodicesima e ultima partita in nazionale…


Armando Picchi nacque a Livorno il 20 maggio 1935; cominciò a giocare al calcio seguendo il fratello Leo che da mezzala lo volle a tutti i costi terzino. Dopo la gavetta e le prime soddisfazioni con la maglia del Livorno, Picchi debuttò nella massima serie nel 1959 con la gloriosa maglia della Spal. Una sola stagione a Ferrara, poi il grande salto all’Inter: i nerazzurri stavano già costruendo la grande squadra che nel corso degli anni sessanta avrebbe dominato la scena nazionale e internazionale.

All’Inter rimase fino al 1967, diventando uno degli uomini più rappresentativi. Non aveva un grande fisico, ma in campo si trasformava in leader: sapeva segnalarsi in ogni occasione per la tecnica di base, il senso della posizione, l’intuito, i guizzi e la determinazione. Tutte caratteristiche che lo consacrarono perno e mediano di sontuosa duttilità; l’unico e autentico baluardo della squadra fortemente voluta e disegnata da Helenio Herrera. A Milano vinse tutto, divideva con Suarez il carisma di una squadra che poteva contare su tanti grandi campioni: nel 1967, quando il ciclo dei nerazzurri stava volgendo al termine passò al Varese dove, nel 1969, fu costretto a chiudere l’attività agonistica.

Armandino, come lo chiamavano a Livorno, amava la sua città al di sopra di ogni altra cosa. Adorava il mare e lo soffriva allo stesso tempo, andava in barca perché neanche con il mare voleva perdere. Temperamento tutto toscano, irriverente al punto da lasciare undici bottiglie di champagne vuote fuori dalla porta di Herrera che aveva proibito un brindisi; polemico, dalla lingua tagliente come molti suoi conterranei, aveva però una grandissima gentilezza d’animo, curava gli affetti in modo straordinario, dimostrando sempre una enorme umanità.

Ottimo libero e mediano, Picchi è stato principalmente un vincente nato: ovunque abbia giocato, dal Santiago Bernabeu al Prater di Vienna, dal campo di Livorno a quello di Varese, in qualsiasi circostanza e allo stesso modo, odiava la parola perdere. Lottava sempre come un leone fino all’ultimo senza risparmiarsi mai, restando comunque lucido stratega e uomo simbolo: il condottiero dell’Inter che sottometteva il mondo del calcio.

E il celebre Allodi probabilmente aveva visto giusto nell’ingaggiare, qualche anno più tardi, questo giovane allenatore dalla scarsa esperienza ma con le stigmate del predestinato in panchina. Il carisma, la spiccata intelligenza tattica e l’incontenibile carica umana avrebbero reso ben presto Armando Picchi il più bravo di tutti come allenatore: sapeva insegnare a vincere, era in grado di trasmettere ai suoi giocatori quella straordinaria voglia di emergere che aveva sempre dimostrato in campo.


A nostro giudizio Armando Picchi sarebbe diventato senza dubbio un tecnico di primissimo piano, anche più titolato che come calciatore. Purtroppo non ha fatto in tempo; ci ha lasciati prima, a soli 36 anni, per diventare una delle grandi leggende del calcio italiano. Tre campionati italiani, due Coppe dei Campioni, due Coppe Intercontinentali e soprattutto l’amore e l’affetto di passionali generazioni sportive. Dal 1990 lo stadio di Livorno porta il suo nome, un tributo doveroso ad un capitano quasi mitologico…

 

Lucio Iaccarino