Questa non è un’intervista. Questo è lo spirito di “Stromberg non è un comodino”. La sua essenza. Delirante, forse, ma viva.

Il cantautore Davide Van De Sfroos (immagine dal web)

Il cantautore Davide Van De Sfroos (immagine dal web)

Su quel ramo del Lago di Como… inizio scontato, ma d’obbligo per un pezzo del genere.
Si parla di calcio, sì. Ma non solo. E, comunque, se ne parla nello stile tipico di “Stromberg non è un comodino”. Il gioco che amiamo, con i suoi brividi e i suoi eroi, con le sue gioie e le depressioni che ci causa quando la nostra squadra perde, lo mescoliamo con un elemento che gli è, apparentemente estraneo, la musica.

E ci aggiungiamo un pizzico del sale che, per noi, gli dà sapore, anche in tempi di professionismo esasperato, di atletismo, di dittatura delle televisioni: la poesia.
Chi legge i nostri articoli sa che tipo di visione abbiamo del calcio, che aspetto cerchiamo di mettere in luce e su cosa puntiamo per essere ancora così morbosamente attaccati a quel pallone che rotola su un prato verde e alle sue storie, spesso nascoste o dimenticate. Il romanticismo, la poesia appunto.

Torniamo al Lago di Como e chiariamo perché sia così scontato l’incipit di questo articolo: a chiacchierare amabilmente con noi di calcio romantico (sarà la parola più usata in queste righe, insieme con poesia, fatevene una ragione!) un personaggio che da quelle parti ha le sue radici, un vero cantore del Lario al punto che usa il dialetto delle sue parti, il laghee appunto, per cantare le sue storie, le vicende di personaggi che hanno vissuto o vivono quei luoghi, nella realtà o nella fantasia: Davide Bernasconi, meglio conosciuto come Davide Van De Sfroos.

Perché proprio lui, in una rubrica come la nostra? Per due semplici motivi: in primis perché è un personaggio che ci affascina moltissimo, che vive il calcio con lo spirito che noi amiamo, che ne sa cogliere gli aspetti che noi mettiamo sempre in evidenza; e, in secondo luogo, perché ci dà l’occasione di parlare delle vicende del Como in serie A degli anni settanta e ottanta. Oltretutto molti ricorderanno che Davide, durante il campionato 2002-03, ha fatto l’inviato alle partite del Como per la trasmissione televisiva “Quelli che il calcio”. Insomma, non è poi così lontano dal nostro mondo. Anzi, se avrete la pazienza di andare avanti nell’articolo, scoprirete che c’è dentro fino al collo. Dai piedi, logicamente.


Davide, se fossimo a scuola Le direi: “Tema. Van De Sfroos e l’incontro con il calcio”. Svolgimento.
“Il mio contatto col calcio, ovviamente, è stato anomalo perché io ero il classico “non calciatore”, il ragazzino che da piccolo nemmeno provava a cimentarci col pallone perché capiva che non era portato: gli altri esprimevano il loro furore per la palla nel cortile, mentre io giocavo a tutt’altro. E, ovviamente, era un mondo che al momento neanche mi apparteneva. Raggiunte le scuole medie, però, ecco che incominciai per forza di cose, a seguire le partite della domenica, a discuterne a scuola, le prime Gazzette comprate e lette.

Avevo scelto di tifare per il Torino, quello del periodo di Graziani, Pulici, Claudio Sala, Zaccarelli e, non ultimo, del “Giaguaro” Castellini che era di Menaggio, un mio quasi conterraneo. Il Torino mi aveva affascinato per il suo lato romantico, la sua storia incredibile con la tristezza di Superga: ne avevo sentito spesso parlare a casa e mi sono infatuato di quella squadra. Anche oggi mi dichiaro granata, se devo dire per quale squadra tengo. Nell’andi rivieni, ovviamente si guardavano i vari “Novantesimo Minuto”, si discuteva a scuola, si disegnavano, durante le ore di italiano o di matematica, le azioni della domenica su un foglietto: le classiche cose da…

In quel momento mi sentivo che, anche se ero negato per il gioco del calcio, volevo partecipare. E’ stato l’unico momento in cui ho giocato a calcio: male, messo in difesa, ma con la determinazione di volerci essere. In quel periodo, la domenica, il mio vicino di casa andava a vedere il Como e portava allo stadio i suoi figli piccoli: io andavo con lui, perché mi bastava vedere una partita vera, andare allo stadio, nella mia pacificazione col calcio, diciamo così. Erano gli anni del Como di Vecchi, Cavagnetto, Nicoletti, Melgrati; io andavo alle medie. Sono rimasto affezionato a quegli anni. Non sono mai andato in trasferta ma, ogni volta che il Como giocava in casa, il mio vicino ci portava allo stadio. Quello è stato il mio incontro col Como. Eravamo credo in terza media quando abbiamo visto il Como salire, salire e arrivare fino in Serie A. Ci sembrava qualcosa di incredibile poter andare allo stadio a vedere Como-Juve, Como-Inter o Como-Torino.

Lo stadio stesso, proprio perché stiamo parlando di cose più poetiche che calcistiche, era per me come una poesia di Garcia Lorca, solamente a guardarlo, con da una parte la città, dall’altra il lago; e non è da tutti avere un lago fuori dallo stadio! Poi questo immenso altare per i caduti, moderno, razionalista, che rappresenta due mani giunte, molto stilizzate. Sembrava  di essere in un mondo veramente surreale: dentro, tutta questa gente mescolata come pezzi di shangai che urla, fuori un lago che comunque si ostina a rimanere più o meno calmo, e davanti questo monolite di cemento con le pietre del Carso che sembrava un qualcosa messo lì come un portale, tipo Odissea nello spazio. Ricordo che vedevo le cose in modo molto fulminato e poetico, proprio perché tutto era assurdo e confuso con gli occhi di quegli anni.
E questo è stato il mio incontro col calcio, molto rocambolesco e psichedelico, molto poco agonistico e sportivo”.

Chi erano i suoi calciatori preferiti?
“Anche per quanto riguarda i giocatori, avevo delle simpatie che andavano anche di là dell’aspetto puramente calcistico: ne ammiravo alcuni perché erano mitici, mentre per altri c’era proprio la simpatia per il personaggio. Mi ricordo per esempio Claudio Sala, lo chiamavano “il poeta”: io ero già affascinato dall’idea della poesia, e uno con quel soprannome e con quella fisicità, mi apparteneva. Ricordo, per quel che riguarda il Como, che ero un grande fan di Fiaschi, di cui avevo avuto una maglietta: l’ho rincontrato qualche anno fa durante una cena con amici e una partita di beneficenza durante la quale ho giocato otto minuti (!!!) per far presenza. Lui e William Vecchi erano i miei beniamini; applaudivo molto anche Nicoletti che all’epoca era un po’ il playmaker della situazione.

Ho ammirato molto, poi, nel corso degli anni, personaggi come Gullit e Van Basten perché rappresentavano per me la quintessenza dell’eroe calcistico, cioè il grande giocatore, con anche il grande controllo, il savoir-faire, la struttura atletica, la bravura e anche il portamento del campione: il vero gladiatore che non si lascia andare né a nervosismi né ad altre cose inutili dalle quali oggi siamo anche fin troppo sommersi. Vedevo che, oltre a dare il massimo, oltre a risolvere le partite, erano anche persone che si lamentava poco, che tiravano dritto. Io odio la concitazione a tutti i livelli, loro mi sembravano dei samurai, dei guerrieri fatti e finiti che avevano raggiunto una pace interiore e, per questo, li ammiravo tantissimo. E continuo ad ammirarli per quello che fanno fuori dal campo”.


Erano delle figure quasi eroiche.
“Sì. Un altro che ricordo con piacere era Gigi Riva, all’epoca idolo di mia madre che mi ha trasmesso questa passione. Lo guardavo da bambino quando giocava nel Cagliari e anche lui è stato un grandissimo punto di riferimento per me. Ricordo con grande simpatia Cuccureddu e di aver stimato molto l’onestà calcistica, fino al punto di andare da Collina a dirgli “no, non è rigore perché sono caduto da solo” di Nedved: una roba mai vista nella storia del calcio. Ho in mente l’immagine di Zamorano ai mondiali del 1998 che, dopo l’eliminazione del Cile, è salito dalla scalinata, si è arrampicato e ha dato la maglia a Moratti, quasi come un antico gladiatore romano sale dal suo imperatore a omaggiarlo. Sono scene che mi rimangono impresse, proprio perché stiamo parlando di un pazzo che guarda il calcio come una cosa da pazzi. Se mi chiedi del fuorigioco o di un determinato modulo io non so neanche di cosa stiamo parlando; è chiaro che io non ricorderò mai il punteggio di quella partita, ma ricorderò sempre quel gesto”.

Eccoci al punto. Il gesto, l’impresa, che va oltre l’aspetto puramente calcistico, ma nasconde al suo interno qualcosa di molto più profondo. Che parla all’uomo, non al tifoso o all’appassionato di calcio.

L’aspetto poetico è proprio quello che contraddistingue la rubrica “Stromberg non è un comodino”.
“Assolutamente! Perché è lì che tu riesci a guardare in profondità dentro l’universo calcio, che è fatto di ripetitività, di allenamenti, di fatica, di astuzia, anche di scaltrezza e, a volte, di un po’ di cattiveria. Se non vai a trovare il lato avventuroso, nobile, il lato “questa è Sparta”, allora è inutile tutto quanto: perché, al di là del delirio o della psicosi calcistica, c’è proprio questo aspetto che io chiamo romantico, ma non per essere d’altri tempi, perché è proprio lo Sturm und Drang del calcio. E allora vedere queste persone, ad esempio quello che riusciva a fare un Maradona nella sua irraggiungibilità dell’epoca era un po’ come vedere oggi Bolt e dire “adesso parte” e realizzare che, finché non lo abbattono, nessuno lo potrà superare.

Maradona, in quegli anni, con le velocità di quel calcio, che partiva, che attraversava il campo da solo, che faceva cose inconcepibili con la palla attaccata al piede, o  Pelè, rimangono delle icone del calcio sognato, perché è quasi più fumetto che realtà, eppure stava tutto accadendo davanti ai tuoi occhi. Io mi ricordo ancora i mondiali di Argentina del 1978 con la finale tra l’Olanda e i padroni di casa, con queste cose bianche che volavano, gente che sanguinava: avevo imparato a memoria tutte le formazioni possibili a memoria, tranne quelle della Polonia o dell’Ungheria con quei nomi impronunciabili, collezionavo le figurine, ero diventato pazzo per il calcio, per quel calcio, e sono stato poi premiato con quella partita finale allucinante che sembrava davvero le Termopili! E’ lì che il bambino Davide ha dei ricordi calcistici: quel calcio che non potevi nemmeno permetterti di scimmiottare, perché andava oltre”.


Dopo l’amarcord, dopo il calcio sognato e sognante, fumettistico come ha detto lo stesso Davide, ci tuffiamo in un’analisi contemporanea. E la domanda che ci poniamo, quella che sta a cuore a chi, come noi, si nutre di gesta e imprese è: possiamo trovare un lato romantico anche nel calcio di oggi? Ci facciamo aiutare nella ricerca da Davide, che è perfettamente nel mood della nostra rubrica.

E del calcio di oggi cosa ne dice? Come lo vive?
“Io ho avuto un crollo. Mi piaceva seguire le squadre, le nuove sorprese, i personaggi e gli eroi senza essere troppo tifoso. Questo anche perché il Torino era finito in basso. Ero tornato a riguardare le partite, avevo l’abbonamento alla tv via satellite, e frequentavo lo stadio, a cavallo tra fine novanta e inizio duemila. Mi ero appassionato all’ Udinese e al Parma. Mi piacciono le squadre che non hanno grossi nomi, ma che, ti fanno sentire sempre il sangue che pulsa. In più tenevo sempre gli occhi aperti sui mondiali e gli europei. Ovviamente non c’era più quell’ incanto di cui vi ho raccontato, ma rimaneva la voglia di ritrovare personaggi di quel tipo, che comparivano ogni tanto, con le loro stranezze e le loro storie. Mi interessavano molto più gli individui, gli uomini, rispetto ai club. Poi c’è stata quell’ ennesima grande bufera e abbiamo visto il crollo della Juve, come fu al suo tempo per il Milan. In quel momento ho provato una grande amarezza: io che viaggiavo costantemente nei weekend e osservavo gli autogrill pieni di queste persone che, come dei fedeli, andavano insieme alla chiesa-stadio, in un vero e proprio  pellegrinaggio, lì li ho visti per un attimo tutti offuscati. Traditi.

Ci sono rimasto molto male e, con l’ennesima scottatura, mi sono un po’ staccato. Dentro di me provavo la sensazione che forse tutto il calcio era più simile al wrestling, dove tante cose accadevano perché comunque bastava far vedere alla gente che qualcosa accadeva. Non ho mai condannato il calcio in sé o il giocatore di calcio in particolare, ma mi ero demoralizzato. Poi è chiaro che, andando avanti, le cose si risistemano perché ti accorgi che ci sono miracoli come il Barcellona, come Messi, e ritorni a guardare il calcio perché capisci che le cose vanno sempre avanti e non è detto che tutto sia sempre la fotocopia di qualcosa che è accaduto in precedenza. Il calcio di oggi lo vedo che dove hai il vero sportivo, il vero giocatore, gli atleti per bene, quelli veri, magari spietati in campo, ma con quel giusto furore, tu hai la possibilità di rivedere un calcio maiuscolo. Ma nell’ approcciarsi a questo mondo c’è anche il rischio: perché noi vediamo i calciatori di oggi come atleti giganteschi, ma sono anche ragazzi molto giovani, circondati da provocazioni, tentazioni, chimere che comunque fanno parte del gioco. E’ molto difficile per un ragazzo così giovane e ricco essere bravo ventiquattr’ore su ventiquattro: chi ci riesce è un campione”.

Secondo lei, anche nel calcio di oggi si può trovare quell’aspetto romantico di cui parlavamo?
“Sì. (deciso ndr) Secondo me sì. Mentre stiamo parlando ci sono comunque persone che si stanno allenando, che stanno sognando, che sono lì che corrono perché devono tenersi pronti per questa grande sfida, per raggiungere quel qualcosa che farà la differenza: tanti bravi gregari che non fanno rumore, ma che, quando vengono a mancare, ti rendi conto che erano fondamentali; perché al di là di Messi, del personaggio in prima fila, quello che applaudi perché è la punta di diamante, quello che finisce sui giornali sia se va bene, sia se va male, ci sono tutti questi eredi di Scirea, di Vullo, di personaggi come il mediano della canzone di Ligabue, sempre lì a recuperar palloni. Ricordo di aver visto una partita allo stadio di Parma in cui mi resi conto della mole di gioco che produceva uno come Veron. Aveva la palla e la portava giù per tutta la partita: in tv lo dai per scontato, vedi passare questa testa pelata, ma non sempre è inquadrato e non ti rendi conto di quante volte faccia su e giù per il campo.

Questi sono i grandi che non sempre sono inquadrati, come quelli che stanno nelle canzoni che sono abituato a scrivere io. Ma dietro al campo, dietro al pallone, ci sono loro, intesi come persone: cosa faranno? Che musica ascolteranno? Che libri leggeranno? In che modo vivranno? Hanno la macchina grossa? Hanno la morosa bella, magari modella? E tu pensi che siano vuoti semplicemente perché hanno alcune delle tentazioni del nostro secolo. Quelle che abbiamo tutti, in fin dei conti. Poi vai a scavare un po’ più in profondità e vedi che hanno delle passioni ben precise: per esempio io, abitando a un chilometro da casa di De Ascentis, mi sono trovato spesso a parlare con lui e ho scoperto che è un grandissimo ascoltatore di musica soul, un soul raffinato, e ha una grande collezione di dischi. Ha anche tutto un suo mondo di gusto tatuagistico, è pitturato come un Maori, ha passione per determinate moto o vetture che si fa modificare o costruire, ma vive tutto con una sua poetica. Ho avuto modo di conoscere altri personaggi: ad esempio ricordo Boban che era di una grande cultura, andava per musei e aveva molti interessi. Chiaro, guardando la persona dietro l’atleta ti rendi conto di cosa è fatto, perché di solito sei abituato a vederlo correre in campo avanti e indietro, bravo o meno bravo: ma quello è il suo lavoro. Ma a noi interessa scavare, perché cerchiamo l’uomo e non il risultato”.

Già. Ci interessa Stromberg e non il comodino.

Emanuele Giulianelli