Il tecnico asturiano, le cui idee e atteggiamenti furono oggetto di ironia nella sua stagione romanista, è il prescelto per il rilancio del Barcellona.

Luis Enrique  (foto www.sport.es)

Luis Enrique (foto www.sport.es)

Luís Enrique è il nuovo allenatore del Barcellona. L’annuncio ufficiale è stato dato Lunedì sera tramite la pagina web ufficiale del club catalano, formalizzando quello che era un segreto di Pulcinella già da un paio di settimane. Riparte, quindi, da un uomo della casa il Barça dopo la deludente stagione passata sotto la guida del “Tata” Martino.
Lo abbiamo visto passare da noi in Italia, Luís Enrique. Tante le imitazioni di cui è stato vittima, un po’ perché la sua voce si presta, un po’ per il suo atteggiamento da “hombre vertical” che si scontrava coi risultati decisamente scadenti ottenuti alla Roma, molto perché un fanatico del tiki-taka nella patria del catenaccio non poteva essere capito. Invece a Barcellona lo hanno voluto fortemente, non hanno titubato a chiamarlo, lo volevano già la scorsa estate ed ora lo mettono al comando del nuovo progetto di rilancio di un club speciale, fatto appositamente per uno come lui, che non guarda in faccia nessuno e va dritto per la sua strada.

Lucho e Barcellona, infatti, si conoscono molto bene. L’asturiano è il Simeone blaugrana, nel senso che – pur non essendo catalano – incarna alla perfezione i valori del club, ne condivide al 100 % la mentalità e da calciatore è stato una bandiera profondamente amata dai tifosi.
Ed è che Luís Enrique, asturiano di Gijón, ha alle spalle una storia particolare. Cresciuto nella squadra della sua città (che contribuì a portare fino ad una epica qualificazione europea, segnando anche il gol decisivo), a 21 anni fu acquistato dal Real Madrid, dove restò cinque stagioni. Nel 1996, però, arrivato a scadenza di contratto, firmò per gli acerrimi rivali del Barcellona, causando indignazione nella Casa Blanca, che quattro anni dopo si vendicò soffiando Luís Figo ai rivali.

Diventato nemico pubblico numero uno del “Santiago Bernabéu” (dove, ancora oggi, ad ogni partita gli cantano “Luís Enrique, tu padre es Amunike” in riferimento al suo vecchio compagno di squadra africano), il centrocampista sembrava caricarsi in proporzione all’avversione del tifo rivale (una volta disse «Per un giocatore del Barça è sempre gratificante essere fischiato al “Bernabéu”»), impregnandosi anno dopo anno del DNA barcellonista al punto da arrivare a rinnegare il suo passato madridista con dichiarazioni come «Il mio periodo nel Real Madrid non mi trae buoni ricordi» o «Mi vedo strano di blanco, l’azulgrana mi sta meglio» o ancora «Il 6-2 del Barça al “Bernabéu” fu un orgasmo calcistico». Di fatto, il Real Madrid divenne il suo bersaglio preferito. Si ritirò nel 2004 da capitano, dopo aver segnato 115 gol (5 al Madrid) in otto anni in blaugrana.




Nel 2008 tornò in quella che è la sua casa per raccogliere l’eredità di Guardiola & Vilanova al Barcellona B, in cui fu un fedele seguace di un 4-3-3 che aveva tra gli interpreti di maggior rilievo calciatori come Pedro, Bartra, Montoya, Sergi Roberto, Rafinha, Deulofeu e Tello, tutta gente che ora si ritroverà in prima squadra. Nei suoi tre anni come responsabile tecnico della seconda squadra blaugrana, ottenne prima la promozione in Segunda División A, quindi nel 2011 lasciò la squadra al 3º posto in classifica, miglior risultato di sempre.
Da lí la disgraziata esperienza a Roma, chiusa con un settimo posto in Serie A e l’eliminazione ai preliminari di Europa League, mai compreso dall’Italia pallonara. In Spagna, invece, non si è mai dubitato di lui, tanto fiero e sicuro delle sue idee da applicare il suo calcio offensivo ad una squadra piccola come il Celta Vigo, con cui ha sofferto sconfitte pesanti a causa proprio dell’atteggiamento eccessivamente spregiudicato, ma con cui alla fine ha plasmato un Barça in miniatura che ha portato fino all’8º posto in Liga.

Ora gli arriva la grande occasione. Non avrà bisogno di tempi di adattamento, non avrà bisogno di integrarsi nello spogliatoio né di capire gli umori del “Camp Nou”, perché col club e coi tifosi blaugrana è già in perfetta simbiosi. Il suo primo compito sarà costruire il nuovo Barcellona, il secondo recuperare Messi, il terzo riportare il club a quei livelli di bellezza con cui ha incantato il mondo negli anni passati.

 

Mario Cipriano