Una squadra fantastica fondata su un gruppo di ragazzini della cantera, capace di imprese incredibili, ma che ebbe la sfortuna di sbattere contro il Milan di Sacchi.

La Quinta del Buitre  (foto www.marca.com)

La Quinta del Buitre (foto www.marca.com)

Si dice che la Storia ricordi solo i vincitori. In genere è vero, anche nel calcio. A volte, però, ci sono squadre che, pur non raggiungendo il massimo in quanto a vittorie, son capaci di tali gesta da rimanere nel ricordo della gente, di divenire leggenda ed essere amate quanto e molto più di compagini ben più premiate. Potremmo citare la Grande Ungheria, l’Arancia Meccanica, il Borussia Monchengladbach degli Anni Settanta, Il Brasile dell’82’, il Grande Torino che non ebbe un palcoscenico internazionale perché le coppe europee all’epoca ancora non esistevano, così come il suo corrispettivo sudamericano che fu “La Máquina” del River Plate.

Un discorso su questo genere di squadre, però, non può non partire dal Real Madrid della Quinta del Buitre.

La parola “quinta” in spagnolo ha molti significati. Quello che a noi interessa qui si riferisce ad “un gruppo di persone della stessa età o della stessa generazione”. La “Quinta del Buitre”, dunque, è un gruppo di ragazzi il cui leader o uomo immagine è il Buitre. Il “Buitre” (in italiano “avvoltoio”) è Emilio Butragueño ed il suo soprannome è un gioco di parole fatto a partire dal suo cognome per descrivere il suo modo di attuare in campo. La “quinta” la completavano Miguel Pardeza, Manolo Sanchís, Rafael Martín Vázquez e Míchel.

La Quinta del Buitre  (foto librodenotas.com)

La Quinta del Buitre (foto librodenotas.com)

Per capire come nasce la “Quinta del Buitre” bisogna, però, fare un passo indietro, contestualizzare ed introdurre i protagonisti secondari. Nell’autunno del 1983 il Real Madrid non passava i suoi giorni migliori. Da tre anni non vinceva la Liga spagnola e da ben diciassette non alzava la Coppa dei Campioni. Erano anni in cui dominavano le squadre basche con un gioco duro ed antiestetico che non ha niente a che vedere col tiki-taka odierno.

Fu allora – il 14 Novembre del 1983 – quando il giornalista del quotidiano “El PaísJulio César Iglesias scrisse un articolo che era un manifesto promozionale della generazione incaricata di far rinascere il Real Madrid. “Amancio y la Quinta del Buitre” fu il titolo del reportage in cui si elogiavano le qualità dei ragazzi del Real Madrid Castilla allenato da Amancio Amaro (calciatore merengue dal 1962 al 1976), una compagine giovane e spregiudicata, molto tecnica, che avrebbe chiuso la stagione vincendo il campionato di Segunda División A, unica squadra giovanile capace di arrivar prima in classifica nella Serie B spagnola. Nella parte finale del testo, l’autore invitava senza giri di parole l’allenatore della prima squadra a convocare i cinque giovani talenti per ridar vigore ad una istituzione che aveva perso brillantezza e già non affascinava tifosi e critica come in passato.

Lo stesso giorno in cui l’articolo fu pubblicato, Iglesias ricevette una telefonata dell’allenatore del Real Madrid: Alfredo Di Stéfano. Il mito eterno del madridismo ebbe l’umiltà di ascoltare le voci che venivano dall’esterno, incontrò il giornalista per discutere della questione e ne seguì il consiglio.
I cinque della quinta erano ragazzi nati tra il ’63 e il ’65. La stella Emilio Butragueño era un attaccante rapido ed imprevedibile, dotato della rara capacità di rilassarsi in area di rigore mentre intorno a lui saliva la tensione, con un dribbling sublime che lasciava come ipnotizzati i difensori. Miguel Pardeza era un attaccante piccolo ma rapido e potente, abile con entrambi i piedi e con un gran senso della posizione, elettrico ma estremamente affidabile. Manolo Sanchís era figlio d’arte – suo padre era stato difensore del Madrid e della nazionale – e si caratterizzava per essere instancabile ed estremamente appiccicoso, uno di quei marcatori a uomo come oggi non ne nascono più, di quelli che non mollano l’avversario neanche durante l’intervallo, che “o passa l’uomo o la palla, ma insieme mai” e di lui Iglesias profetizzava un futuro da killer degno di far impallidire il ricordo di gente come Nobby Stiles e Bobby Moore.

Rafael Martín Vázquez, invece, era l’opposto, era fantasia al potere, controllo e visione di gioco, geometria e disciplina, eleganza e talento. Infine Míchel (José Miguel González Martín del Campo, per l’esattezza, nel caso in cui qualcuno si stesse chiedendo perché lo si chiami solo per nome), ala destra dal cross preciso, non irresistibile nell’uno contro uno, ma abilissimo a smarcarsi e dialogare coi compagni.


Il Real Madrid della Quinta del Buitre  (foto www.marca.com)

Il Real Madrid della Quinta del Buitre (foto www.marca.com)

Sanchís e Martín Vázquez esordirono meno di tre settimane dopo la pubblicazione dell’articolo, Pardeza lo fece prima che l’anno finisse, mentre Butragueño dovette attendere fino al 5 Febbraio del 1984: sul campo del Cádiz, entrò in campo col Madrid sotto 0-2 e nel giro di neanche 45’ realizzò due reti ed un assist. Solo Míchel non partecipò durante quella stagione, debuttando all’inizio della successiva, ma conquistando presto un posto da titolare, mentre Pardeza non riuscì ad imporsi e finì col lasciare il gruppo e trasferirsi al Real Zaragoza.

Il gruppo di “canteranos” integrava una squadra in cui già spiccavano calciatori come Camacho, Chendo, Gordillo, Juanito e poi anche il portiere Buyo, Fernando Hierro e gli stranieri Hugo Sánchez, Bernd Schuster, Jorge Valdano e Óscar Ruggeri.
Così conformato, il nuovo Real Madrid vinse cinque campionati nazionali consecutivi (dal 1986 al 1990), una Coppa di Lega (1985), due Coppe UEFA (1985 e 1986), due Coppe del Rey (1989 e 1993), quattro Supercoppe di Spagna (1988, 1989, 1990 e 1993), segnando una quantità di record collettivi enorme, alcuni ancora imbattuti (come quello di 121 gare interne senza conoscere sconfitta), altri battuti solo di recente (come il record di 107 gol, superato nel 2012 dal Madrid di Mourinho).

Senza dimenticare i record individuali, su tutti quello di goleador di Hugo Sánchez: 38 reti in Liga nel 1990, superato a ripetizione da Messi e Cristiano Ronaldo negli ultimi anni. A parte i numeri, però, era una squadra che riportò entusiasmo al “Santiago Bernabéu”, stadio nel quale il Madrid sembrava capace di tutto, con epiche rimonte europee e notti magiche che fanno sì che il “Madrid de la Quita del Buitre” sia considerato uno dei tre grandi Real Madrid della storia (insieme a quello degli Anni Cinquanta ed a quello dei “Galácticos”) nonostante non abbia mai vinto la Coppa dei Campioni.

L’unico limite di questo team grandioso, infatti, fu il massimo alloro europeo. Ad interporsi sul cammino di Camacho, Butragueño e compagnia fu soprattutto il Milan di Sacchi. I ragazzi allenati dall’olandese Leo Beenhakker caddero in Semifinale per tre anni di fila: nel 1987 contro il Bayern Monaco, nel 1988 contro il Porto e nel 1989 appunto contro il Milan, che – dopo aver pareggiato 1-1 in Spagna – rifilò ai “blancos” un indimenticabile 5-0 a “San Siro”. La stagione successiva furono sempre i rossoneri a giustiziare gli iberici (agli Ottavi di Finale), mentre nel 1991 l’epoca d’oro giunse al termine con la sconfitta interna per 1-3 contro lo Spartak Mosca ai Quarti di Finale.

A quel punto, Martín Vázquez era già andato via, destinazione Torino: sarebbe poi tornato nel 1992 per ripartire definitivamente nel ’95. Lo stesso anno disse addio anche il Buitre, spodestato da Raúl, andando a giocare in Messico al Celaya, dove l’anno dopo lo raggiunse anche Míchel e nel 1997 pure Martín Vázquez. Solo Manolo Sanchís chiuse la carriera dove la aveva iniziata, ritirandosi nel 2001.
Passato il tempo, quella squadra è ancora un punto di riferimento per il Real Madrid, di cui ha contribuito pesantemente e creare il mito globale. Inoltre, è stato il team pioniere nel proporre bel gioco in Spagna, quando la Masía stava ancora seminando i frutti che Cruijff e Guardiola avrebbero poi raccolto.

Mario Cipriano