Renato Portaluppi, in Brasile era un fenomeno, ma a Roma si impose solo per la vita notturna: donne, birra, macchine e ancora donne!

Renato Portaluppi

Renato Portaluppi (foto twitpic)

Da quando è nato il calcio il Brasile ha sfornato campioni dalla classe e da una superiorità tecnica mai in discussione; e tutto il mondo da sempre è testimone delle qualità dei carioca. Per gli scettici, ci sono anche i numeri che possono confermare tutto ciò: ad esempio Pelé ha realizzato in carriera 1281 reti, Romario 1002, Roberto Dinamite 894, Zico 826 mentre per il mitico ex-romanista Renato c’è una bella cifra tonda: 1000! Solo che, nell’ultimo caso, è doveroso sottolineare che non parliamo di gol ma di ragazze… E fu proprio lui a dirlo candidamente:“Nella mia vita ho avuto 1000 donne!”.

Niente a che spartire col calcio, quindi, ma siccome sulla carta d’identità del suddetto Renato Portaluppi (Guaporé, 9 settembre 1962) alla voce professione qualche anno fa c’era calciatore nasce in ognuno di noi la curiosità e l’interesse per un personaggio a dir poco stravagante.

Quando arrivò alla Roma, nella stagione 1988/89, sembrava l’ennesimo ottimo colpo di mercato del grande presidente Dino Viola. Un film già visto; il classico ragazzino brasiliano nato in una famiglia povera (era il penultimo di 13 fratelli) che grazie al Dio del calcio aveva vinto i morsi della fame ed era diventato celebre a suon di dribbling e prodezze. Renato Gaucho, così lo chiamavano dalle sue parti, era un’ala destra atipica essendo agile e potente (186 cm per 87 kg) al tempo stesso. E questa miscela era risultata decisiva fin da giovanissimo: a 25 anni aveva già vinto tutto in Sudamerica e con i galloni del protagonista. In ordine sparso, un campionato nazionale col Flamengo, due campionati statali col Gremio (la squadra dove era nato calcisticamente) e soprattutto la Libertadores e la Coppa Intercontinentale, sempre con il club di Porto Alegre. Fu il primo titolo mondiale per il Gremio, e Renato fu la stella più brillante del trionfo realizzando la doppietta decisiva nel 2-1 con l’Amburgo a Tokyo; era l’11 dicembre 1983.

Insomma, quando arrivò a Roma tutto sembrava tranne che un pacco o un bidone… Oddio, forse i primi dubbi potevano e dovevano arrivare subito ai dirigenti e ai tifosi giallorossi presenti ai primi allenamenti della squadra. Renato si presentava sempre allo stesso modo: capelli lunghi con un filino di gel, camicia hawaiana con vista sul crocifisso su petto villoso, bermuda rosso fuoco e il tutto condito da due tre litri di acqua di colonia o profumo. Voglia di lavorare e faticare sul campo? Zero! Meglio finire subito l’allenamento (quando ci andava) e divertirsi con la sempre proverbiale “dolce vita” romana, che sembrava fatta apposta per un brasiliano…

In quell’indimenticabile (per lui) 1989 fu sempre circondato da belle ragazze e riuscì a farsi conoscere da tutti i locali notturni della capitale. Per riuscire in questa difficile impresa sfruttava tutte le ore della notte; del resto aveva un fisico eccezionale e rimaneva sobrio anche dopo il terzo gallone di birra… Già, perché la birra era l’altra grande passione del buon Renato Portaluppi! Secondo alcuni fornitori, da solo fece impennare le vendite e i ricavi di bibite alcoliche di tutta Roma; roba da guinness dei primati! Ovviamente abbiamo scherzato, ma del resto per lui il calcio era soltanto un gioco e non riusciva a prenderlo troppo sul serio. In Brasile questo modo di ragionare poteva anche andare bene, in Italia proprio no…

E pensare che la sua stagione romana era anche cominciata bene: le prime gare ufficiali, quelle del girone di Coppa Italia, videro Renato realizzare tre reti nelle prime cinque partite. L’inizio fu incoraggiante, ma il resto…

Il richiamo dei night e dei divertimenti era troppo forte: la sua tecnica per rimorchiare era sempre le stessa, ma funzionava come un orologio svizzero. Gli bastava un sorrisino, qualche battuta spiritosa, l’occhiolino e uno dei suoi celebri sguardi languidi copiati dalle telenovele brasiliane.


Offriva sempre e solo lui, e da buon anfitrione ospitava le belle donzelle a casa sua: un po’ di champagne, un bel pieno di bollicine e poi la notte… Nessuna gli resisteva! Amava, e come dargli torto, le belle macchine e non perdeva occasione per vantarsi dei suoi bolidi con cui sfrecciava per Roma e dintorni! Donne e motori gioie e dolori? Macché! Renato il sentimentale non amava questo proverbio: una volta fu fermato mentre guidava per eccesso di velocità e a pizzicarlo fu una vigilessa. Pochi secondi e anche lei si innamorò di lui; invece della multa si scambiarono il numero di telefono con la promessa di rivedersi nel fine settimana…

In campo, intanto, le cose per Renato si mettevano male. La domenica era pigro, svogliato e inconcludente; per dirla in maniera più semplice non ne azzeccava una! Non un assist illuminante, non un dribbling, non una giocata estrosa. Nulla di tutto ciò! In campionato appena 23 presenze e nessun gol all’attivo, mentre in Coppa Uefa riuscì a siglare una rete contro il Norimberga per poi rovinare tutto facendosi espellere poco dopo. Tanti, in questo senso, i suoi problemi di natura disciplinare: litigava spesso con arbitri e avversari, talvolta anche con i compagni. Ebbe diverse incomprensioni con la stella locale Giuseppe Giannini; anni dopo dichiarò in un’intervista:“Nel calcio italiano abbondano i raccomandati: e molti di loro, se giocassero nella serie C brasiliana, non toccherebbero un pallone!”.

I tifosi giallorossi nei suoi riguardi passarono presto dalla rabbia alla rassegnazione, per poi però buttarsi nell’ironia. Passò alla storia, infatti, uno striscione comparso al Flaminio durante una delle sue ultime gare casalinghe:“A’ Renato, ridacce Cochi!”, con chiaro riferimento alla famosa coppia di comici lombardi. E a quella simpatica canaglia del brasiliano, quando gli spiegarono tutto, scappò via un’altra risata… Renato aveva ormai capito che il calcio italiano non faceva per lui, e allora meglio lasciarsi col sorriso sulle labbra; come se tutto fosse stato uno scherzo, un equivoco.

L’anno dopo tornò a giocare in Brasile e vi restò felice e contento per sempre; del resto, da quelle partì riusciva a rendere alla grande. Militò in tre grandi club di Rio de Janeiro (Flamengo, Fluminense e Botafogo) e, in maniera meno brillante, nell’Atletico Mineiro, nel Bangu e nel Cruzeiro.

A Rio molti allenatori erano compiacenti, e gli permettevano talvolta anche di abbandonare il ritiro della squadra o di disertare qualche allenamento. In campo ritrovò a sprazzi il fosforo dei bei tempi e tutto sommato la sua carriera fu soddisfacente: vinse una Coppa del Brasile col Flamengo, un campionato carioca col Fluminense e una Supercoppa col Cruzeiro. Le 41 presenze (con 5 gol) con la nazionale brasiliana, guadagnate con allenatori diversi, dimostrano che Renato aveva del talento e che poteva sfruttarlo meglio. A frenarlo è stata la sua stessa vita esagerata, soprattutto quando l’arrivo in Italia poteva decretare la sua esplosione definitiva nel calcio europeo. Ma, sia chiaro, nessuno può giudicare nessuno: che abbia avuto ragione lui? Chissà…

Ora Renato viaggia verso i 50 anni ed è un discreto allenatore nel suo amato Brasile: ha guidato club di prima fascia come Vasco, Bahia, Gremio, Fluminense. In Italia si sono tutti dimenticati di lui, salvo rare eccezioni. Anzi, succede spesso: quando qualche giovane tifosa giallorossa, sfogliando un vecchio album o almanacco del passato, si imbatte in qualche foto della Roma 1988/89, non può fare a meno di esclamare:“Che carino questo calciatore! Proprio un bel ragazzo… Chi era, papà?”.

E a quel punto l’amareggiato genitore è costretto a malincuore a parlare di lui! Già, il mitico e leggendario Renato: l’unica ala destra della storia che a Roma accumulò più cuori infranti che dribbling riusciti…

Lucio Iaccarino

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