La fantasia e la malizia, l’arte e la furbizia. Sivori era un mago del pallone, e la sua epopea ha appassionato Italia e Argentina.

Enrique Omar Sivori

Enrique Omar Sivori (foto dalla rete)

Aveva un caratterino difficile fin da bambino, ma era stato anche sfortunato e gli si perdonava tutta la scaltrezza. Gli era morto il padre quando aveva appena quattro anni, e per una famiglia numerosa questo era un colpo durissimo. Lui, Enrique Omar Sivori (2 ottobre 1935), era l’ultimo della compagnia e, così piccolo, non poteva certo andare a lavorare. Gli altri fratelli, per mangiare, furono costretti a trovarsi un mestiere e si compattavano per aiutare il piccoletto di casa. La città era San Nicolas, nell’entroterra argentino, a 200 km circa da Buenos Aires. Fu deciso di mandarlo a scuola ma Omar si rilevò subito un pessimo studente; appena poteva, scappava al cinematografo e vi restava per ore insieme ad un paio di amici.

Con loro, c’era sempre un pallone che Omar custodiva gelosamente; per tutti era il gioco e lo svago più ambito, per lui molto di più… Aveva del talento; i suoi coetanei furono i primi ad accorgersi del suo soave tocco di palla, sempre delicato e mai rude. La sua prima vera  squadra di calcio fu il Teatro Municipal, che prendeva parte ad un campionato minore. Trattando il pallone come una piuma, Sivori fu subito il fantasista titolare della squadra e divenne ben presto qualcuno…


Anche se giovanissimo, Omar aveva le idee molto chiare. Piccolo di statura, nerissimo di capelli e di occhi, a scuola andava sempre più malvolentieri e si dimostrava uno scugnizzo pigro, insoddisfatto e scontroso. Quando però si parlava di calcio, gli occhi si ridestavano e un nuovo vigore gli rianimava il corpo. Aspirava a molto di più e la squadretta del Teatro Municipal cominciava a stargli stretta…

Sivori cercò in tutti i modi di avere un provino con club di alto spessore, come l’Independiente o il Boca. Dopo un gran sgomitare, fu l’amico di famiglia Galdame a dargli la notizia più attesa: c’era la possibilità di fare un tentativo col River Plate, la leggendaria squadra di Buenos Aires.

Omar, che nel frattempo era già stato soprannominato El Cabezon per la capigliatura sempre più folta, era emozionatissimo! Il River provava ogni anno seimila giovani, che venivano tutti scrupolosamente sottoposti a un esame calcistico da parte di una commissione composta da dieci persone, ognuna delle quali compilava una scheda per ogni candidato. La prova di Sivori fu pessima e nove giudici su dieci lo bocciarono! L’unico a dargli fiducia era stato Renato Cesarini (grande ex-calciatore della Juve) che, nonostante qualche errore di troppo causato dalla troppa emotività del ragazzo, era rimasto colpito dal tocco di palla dello scugnizzo.


Omar ebbe, qualche tempo dopo, una nuova possibilità e stavolta convinse tutti: le qualità emersero senza ulteriori intoppi e il River lo ingaggiò al compimento del diciottesimo anno. Contribuì alla conquista di ben tre campionati argentini (dal 1955 al 1957) totalizzando 30 reti in 69 presenze e si guadagnò anche la maglia numero 10 della sua nazionale, con cui vinse la Coppa America del 1957. Con l’Argentina (19 presenze e 9 gol) ebbe l’onore di indossare la maglia numero 10 e costituì, insieme ai fuoriclasse Maschio e Angelillo, un formidabile trio denominato gli Angeli dalla faccia sporca.

Sivori era ormai un campione affermato e popolarissimo in Argentina, ma anche nel resto del pianeta… In Italia aveva ripreso vigore, come già avvenuto nel primo dopoguerra, la mania degli “oriundi”… Una vera e propria frenesia, che aveva coinvolto club e presidenti a caccia di talenti sudamericani. E Omar era un boccone troppo prelibato: oltretutto, suo nonno Giulio era nativo di Cavi di Lavagna e la madre Carolina era di lontane origini abruzzesi. Più oriundo di così…

Fu la Juventus a fare il colpaccio di mercato, mettendo sul piatto l’offerta record di 10 milioni di pesos! Il River Plate, perennemente a corto di liquidi, accettò ma il vero affare lo fece la Juve! Negli anni in bianconero, Sivori fece cose grandiose e il suo genio calcistico incantò l’Italia. Aveva un tocco leggiadro, aveva estro, folgoranti intuizioni e una malizia personalissima. In una partita contro la Sampdoria dribblò a modo suo mezza difesa, poi anche il portiere e si piazzò a un metro dalla porta. Aspettava ancora per segnare… Un terzino si scaraventò come una furia contro di lui; Omar allora agganciò la palla con il sinistro, la tirò indietro come farebbe una foca, l’avversario sbilanciato cadde e solo allora lui si decise a segnare. Oltre a vincere, amava divertirsi e il suo repertorio di tocchi, di finte e di gol rapinosi era brillantissimo. E passarono alla storia anche i suoi calzettoni srotolati sino alla caviglia, un modo per sentirsi libero e leggero come l’aria. Segnò 135 gol in 215 apparizioni con la maglia della Juve, giocando con pilastri come Boniperti e Charles (il Trio Magico) e scoprendo che il tre era il suo numero fortunato in Italia. Furono tre, difatti, sia le vittorie in campionato che quelle in Coppa Italia; suo anche il titolo di capocannoniere del campionato nel 1959/60 e soprattutto il Pallone d’Oro del 1961 (mettendo dietro gente del calibro di Suarez e Haynes).


Essendo oriundo, riuscì ad  usufruire anche della convocazione nella nazionale italiana, dove segnò 8 gol in 9 gare. Prese parte alla sfortunata spedizione mondiale in Cile del 1962: un’edizione amara per gli azzurri con Sivori che finì con molti altri sul banco degli imputati per negligenza ed eccessivo nervosismo. Del resto, anche nella Juve Omar si era talvolta macchiato di comportamenti non proprio esemplari in campo. Il fuoriclasse non era in discussione, ma talvolta il suo temperamento forte gli procurò dei grattacapi. Quando i difensori lo maltrattavano, non disdegnando colpi proibiti, Sivori reagiva spesso e in maniera violenta, con colpi ora furtivi ora scoperti. Qualche rissa nei dopo gara confermava la sostanza: nell’italo-argentino riaffioravano le ruvidezze e l’irascibilità di quando era ragazzo. Ebbe seri problemi anche con Heriberto Herrera, l’arcigno allenatore paraguaiano che nel frattempo era arrivato alla Juventus. Anzi, Sivori lo odiò come si può odiare un nemico in guerra: il divorzio fu inevitabile!

Passò al Napoli, una piazza da sempre innamorata dei funamboli del pallone. Quando arrivò per la prima volta alla stazione Mergellina, il 19 luglio 1965, Omar fu accolto come un re da migliaia di partenopei in delirio. El Cabezon li ripagò soltanto a sprazzi, con 63 presenze e 12 reti. Riuscì ancora a regalare qualche gioiello e qualche primizia calcistica, ma cominciò ad affiorare anche qualche problemino fisico che di tanto in tanto lo rallentava. Rimpinguò in maniera netta soltanto il suo record di sanzioni: i suoi problemi con gli arbitri toccarono l’apice proprio in un Napoli-Juventus col maledetto Heriberto Herrera sulla panchina avversaria. Al San Paolo ci fu un parapiglia degno di un film western, e Sivori era proprio in mezzo alla mischia…

La conseguente squalifica fu per lui la goccia che fece traboccare il vaso. Omar Sivori tornò in Argentina e disse basta col calcio, con l’intento di godersi la moglie e i figli. L’amore per il nostro paese lo riportò, tuttavia, dalle nostre parti per intraprendere un’apprezzata carriera di commentatore televisivo. I suoi interventi erano sempre precisi e professionalmente ineccepibili, e non poteva essere altrimenti visto il suo glorioso passato. Così come quando giocava, però, spesso si infervorava con colleghi e ex-calciatori che volevano tenergli testa in qualche discussione tecnica. Omar amava dire le cose in faccia, una qualità rarissima di questi tempi ma che non sempre viene apprezzata. In campo o fuori, Sivori è sempre stato così: prendere o lasciare…

Lucio Iaccarino

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