Intervista al capitano della squadra scozzese che ha conquistato la Coppa di Lega scozzese contro il Celtic.

Il trionfo del Kilmarnock

il trionfo del Kilmarnock (foto dalla rete)

Abbiamo raccontato (link) la storia di quanto accaduto poco più di un mese fa nel calcio scozzese: della finale tra il blasonato e strafavorito Celtic e il Kilmarnock, vittima designata per rimpinguare il carniere di trionfi di biancoverdi  di Glasgow; di come i pronostici siano stati ribaltati da un colpo di testa incornato da Van Thornout a pochi minuti dal termine, della vittoria diventata amara subito dopo il triplice fischio finale per la morte del padre del difensore Liam Kelly, colpito da un malore sugli spalti mentre il figlio viveva il più grande successo sportivo della sua carriera.

Vi abbiamo detto che il capitano del Kilmarnock è un italiano, che quella sera non è potuto scendere in campo per infortunio, ma ha sollevato la coppa, conquistata contro qualsiasi pronostico nel fortino inespugnabile di  Hampden Park: si chiama Manuel Pascali, classe ’81, difensore che ha costruito la sua carriera sui campi della Serie C italiana prima di accettare la scommessa di volare in Scozia per cambiare vita. E diventare un simbolo per i tifosi del più antico tra i club che oggi prendono parte alla Scottish Premier League.


Manuel, ragazzo simpatico e gentile, ci ha rilasciato un’intervista nella quale racconta la sua scelta di emigrare, la vittoria in coppa e tanto altro.

Innanzitutto, mi spieghi come sei arrivato in Scozia?

«Avevo fatto l’ultimo anno in Italia a Foligno. L’anno prima giocavo a Carpenedolo, il cui presidente era Ghirardi che poi ha comprato il Parma nella stessa stagione. A fine campionato, ha preso tre o quattro di noi del Carpenedolo e ci ha messo sotto contratto con la squadra emiliana appena acquistata: da lì, sono andato in prestito al Foligno. Verso la fine del campionato disputato in Umbria, mi ha chiamato Stefano Salvatori, che è un ex giocatore del Milan, oltretutto con un esperienza in Scozia agli Hearts, che mi conosceva e aveva parlato di me con Sergio Porrini, mio compagno ai tempi del Pizzighettone, e mi ha chiesto se mi andava di provare questa avventura nel calcio scozzese.

A me andava benissimo e, ottenuto il permesso del Parma con il quale ero sotto contratto, sono andato in prova al Kilmarnock. Sono stato una settimana in ritiro con loro, a giugno 2008; poi sono stato richiamato per altri sette giorni di prova vera e propria e, dopo un po’ di amichevoli disputate con loro, la prima settimana di agosto mi hanno comprato dal Parma e fatto firmare un contratto con loro di quattro anni. Così sono diventato un giocatore dei Killies

Com’è stato il tuo impatto con la città?

«Città tranquillissima. Non ho mai avuto, prima di allora, l’opportunità di confrontarmi con una realtà in cui tu sei una star, perché per loro lo sei: giochi in Premier League scozzese, sei un giocatore vero, la gente ti riconosce per strada. Io non sono mai considerato una star, ma mi ha fatto enorme piacere che la gente mi fermasse per strada per farsi una foto, una sensazione che non avevo mai provato prima di allora sulla mia pelle. In quattro anni, comunque, i tifosi mi hanno dimostrato un grandissimo affetto, ma senza mai eccedere, sempre molto civili e rispettosi nel dimostrare il loro affetto.

Le persone a Kilmarnock non sono mai invadenti, anzi a volte vedi quanto sono timide nel chiederti anche solamente una foto per paura di violare la tua privacy. Io ho scelto, di vivere qui a Kilmarnock, che è una città piccola, a differenza di molti miei compagni che hanno casa a Glasgow, perché io sono arrivato qui pensando solo al calcio e già essere arrivato in Scozia e avere l’opportunità di giocare in Premier League per me era tutto. Non mi interessava vivere a Glasgow, la prima casa che mi hanno offerto qui io l’ho presa. Ed ero contentissimo.»

E con il calcio scozzese?

«Quando ero in Italia e giocavo a Pizzighettone, il mio compagno Sergio Porrini, che conosce bene questa realtà per aver indossato la maglia dei Rangers di Glasgow, mi ripeteva che il campionato scozzese era fatto per me, che avrei dovuto andare lì assolutamente, che il mio gioco era perfetto per quel tipo di calcio. Ci aveva visto giusto perchè è un calcio molto passionale, fisico. Col senno di poi, mi guardo indietro e penso che il primo anno sono arrivato, forse, con troppo vigore, ma era quella che io consideravo la mia occasione e non volevo farmela scappare a tutti i costi.

Posso ammettere serenamente che a volte esageravo nella vigoria, nella vigoria, e infatti il primo anno ho preso qualcosa come sedici cartellini gialli. Al mio debutto casalingo nella prima divisione scozzese sono stato ammonito dopo un minuto e venti secondi! L’anno dopo ho preso addirittura diciotto cartellini! Mi avevano sicuramente etichettato come falloso, certo, ma io me l’ero andata a cercare. Era la mia chance, che avevo cercato da sempre, per cui vivevo tutte le partite alla morte e, ogni tanto, pagavo questo mio atteggiamento perché è, sì, un calcio fisico, ma a volte andavo un po’ oltre. Sempre senza cattiveria e nella legalità, comunque.»

Come sei diventato capitano di quella squadra?

«Per una tradizione scozzese, all’inizio dell’anno il mister e la dirigenza del club designano il capitano ufficiale del club, colui che rappresenterà la squadra in tutte le manifestazioni, a prescindere dal fatto se sia titolare o meno. Quest’anno io sono il capitano. La cosa assurda è che, dopo che ero qui da tre mesi, ho vestito la fascia del capitano in campo, perché quello ufficiale era squalificato. Giocavamo con gli Hearts di Edimburgo e ancora ricordo che rimasi scioccato quando il mister mi diede quella fascia. Non me l’aspettavo proprio, ero appena arrivato e già mi concedevano questo onore e questa responsabilità: immagino che qualche mio compagno, da molti più anni di me in squadra, se la sia anche presa. In quattro anni ho avuto quattro mister diversi e alcune volte, in assenza del capitano ufficiale della squadra, ho indossato la fascia, ma questo è il mio primo anno da club captain.»


Ho letto in un’intervista al capitano designato per sostituirti la sera della finale con il Celtic che, se avessero vinto,avrebbero dedicato il trofeo a te, il loro capitano.

«James Fowler è una bandiera qui a Kilmarnock, è in squadra dal ’97 e, prima della partita, mi ha detto che se mai fossimo riusciti a conquistare il trofeo, avrei dovuto riceverlo io e sollevarlo. Io gli ho detto di farlo tutti e tre, io, lui e Hay, anche lui qui dal ’98. Gli ho detto: “Ci mancherebbe, voi siete la storia qui a Kilmarnock, voi avete perso due finali, è giusto che la solleviate con me!”. »

Quella sera del 18 marzo i ricordi sono un misto di gioia e dolore per quanto successo immagino.

«Assurdo. Passare da una gioia infinita per tutti, dopo neanche cinque minuti, realizzare quello che è successo a un tuo compagno di squadra, con i parenti di tutti i giocatori presenti in tribuna, ci ha davvero distrutto. Tutti, non solo Liam. Ho in testa una immagine che rimarrà indelebile dentro di me per sempre, più di vincere la partita, più di aver alzato il trofeo: lo spogliatoio con la Coppa di Lega al centro, circondata da casse di champagne e noi tutti seduti con le mani nei capelli, intenti a guardare il pavimento e a chiederci come fosse mai possibile una cosa del genere.

Siamo riusciti a fare una piccola festa solamente la settimana dopo quando la società, per rispetto a Liam e alla sua famiglia, ha abbassato i prezzi dello stadio per la partita contro il Motherwell e noi abbiamo indossato una maglietta per lui, per dimostrargli la nostra vicinanza. Prima della partita è stato reso omaggio al padre di Liam con un minuto di silenzio in uno stadio pieno all’inverosimile; poi, al termine, abbiamo fatto il nostro giro d’onore. Festeggiare una settimana dopo ha dato un po’ di tempo alla gente per tornare, in qualche modo, alla normalità.»

A livello calcistico, secondo te cosa ha reso possibile il “miracolo” in quella partita?

«Nel calcio , dopo un po’ che ci vivi, capisci che in una partita secca può succedere davvero di tutto, se consideriamo che poco tempo dopo abbiamo affrontato il Celtic in campionato e abbiamo perso per 6-0. Ma quella sera c’è stata una differenza di motivazioni. Noi abbiamo una buona squadra, però noi eravamo molto più vogliosi di vincere di loro. Volevamo entrare nella storia del club che non aveva mai vinto quel trofeo, che da quindici anni non vinceva niente. Inconsciamente loro si sentivano già appagati dal campionato, ormai nelle loro mani, e dall’altra finale di coppa da disputare, mentre noi volevamo vincere a tutti i costi: questo ha fatto la differenza.»

Ti ha pesato non scendere in campo?

«Ovvio. Avevo disputato tutte le altre partite di quel trofeo, compresi i centoventi minuti della semifinale e mi è dispiaciuto non esserci proprio in finale. Ma ho sempre ripetuto che mi sarebbe pesato di più se non avessimo vinto, perché mi avrebbe portato a pensare, forse con un po’ di arroganza, che se ci fossi stato io in campo avrei potuto dare quell’uno percento in più. Ma quello che potevo dare, l’ho dato anche non scendendo in campo. Ho comunque partecipato in prima persona a quel trionfo, dal prepartita in poi.

La BBC mi aveva chiesto di commentare la partita in diretta per loro, ma io ho detto loro che non me la sentivo, che volevo stare con la mia squadra, nello spogliatoio, nel riscaldamento, alla fine: volevo viverla fino all’ultimo secondo, anche non potendo giocare, perché non so se nella mia carriera mi capiterà più un’occasione così. E’ stato pesante, certo, perché hai tanta voglia di giocarla e stare fuori è più difficile perché ti senti nervoso e impotente a guardare le azioni, le occasioni e non poter intervenire: le vivi con quel pathos che, quando giochi, non hai.»

Quali sono le tue prospettive?

«Sono in scadenza di contratto. A novembre abbiamo iniziato a parlare con i dirigenti di rinnovo e mi hanno offerto altri tre anni: ne vado molto orgoglioso perché so che, dopo quattro stagioni trascorse qui, non sono più molto giovane e non è poco a trent’anni ricevere un’offerta di questo tipo, è un atto di stima da parte del club. Siamo in trattativa, ci sono due o tre piccoli aspetti da sistemare, ma non penso che ci saranno problemi. A meno che non dovesse arrivare un’offerta irrinunciabile che ti cambia assolutamente la vita: quella mi metterebbe in difficoltà e sarebbe da prendere in considerazione. Ma se dovessi rimanessi qui, sarei l’uomo più felice del mondo.»

Quindi non hai nostalgia dell’Italia?

«Ho nostalgia degli amici e della famiglia di origine: io, mia moglie, italianissima, e mio figlio di 3 anni stiamo benissimo qui. Ma il calcio italiano sicuramente non mi manca. Certo, se arrivasse una chiamata dalla Serie A o da una buona B, tipo Torino, accetterei. Però, ti ripeto, non ho nostalgia. Ancora di più nel vedere le cose che stanno succedendo oggi in Italia, nel calcio e fuori: perché il calcio è solamente lo specchio della società del nostro Paese. Perché se, purtroppo l’Italia è conosciuta nel mondo, e io riscontro che è vero, per la cultura del corrotto, non dobbiamo stupirci se c’è anche nello sport.

E, secondo me, se la situazione è questa, tutti noi dobbiamo guardarci dentro: dobbiamo tutti metterci la faccia in prima persona, perché se le cose vanno così la responsabilità è nostra. Abbiamo fatto la storia, ma stiamo buttando in malora tutto perché vince la cultura della corruzione, del furbetto disonesto che riesce a cavarsela in tutte le situazioni, del fatto che pagano sempre gli stessi. Questo mi amareggia, perché l’Italia è il mio Paese. Dopo il fatto di Morosini, io ero molto arrabbiato nel vedere quanto successo, nel vedere quella macchina dei vigili urbani che non faceva passare l’ambulanza.

Per carità, il povero Mario sarebbe morto lo stesso, probabilmente, ma a me è subito venuto da pensare che quello fa parte della cultura di certi Italiani che fanno le cose superficialmente, senza pensare alle conseguenze. Qui in Regno Unito non ti viene neanche l’idea di parcheggiare la macchina davanti a un’ambulanza. Perché? Perché non si può! E’ assurdo che l’Italia venga riconosciuta e ricordata nel mondo, oggi, per cose negative come la mafia e la corruzione. Ancora di più ti amareggi quando pensi che chi tiene comportamenti del genere molto spesso non paga per quello che ha fatto.»

 

Tornando al calcio, un tuo commento sul campionato scozzese che volge al termine, un campionato che è stato segnato dalla crisi dei Rangers di Glasgow.

«Dal punto di vista personale, finiamo la stagione con l’immensa gioia di aver scritto la storia del club, ma con un po’ di rammarico perché, vista la qualità della squadra, avremmo potuto lottare per l’Europa, soprattutto considerando che i Rangers il prossimo anno non potranno giocare nelle coppe. Sarebbe stata una grande occasione, soprattutto per me che non ho mai disputato competizioni continentali. Dal punto di vista generale, è stato un torneo buttato via dai Rangers che, intorno a Natale, avevano 15 punti di vantaggio sulla seconda e perdere tutti quei punti nei confronti del Celtic mi fa pensare che qualche giocatore sapesse già la fine che stava per fare il club.

Perché non è da Rangers mollare così. La dimostrazione del loro valore è stata messa in evidenza con la vittoria dell’ultimo Old Firm che ha dimostrato come, se non ci fossero stati problemi e distrazioni a livello societario, avrebbero potuto benissimo dire la loro in chiave scudetto. I Celtic nel momento cruciale hanno messo la quinta; la svolta è stata proprio nella partita contro di noi quando, sotto di tre reti, hanno pareggiato per 3-3, inanellando da lì in poi una serie impressionante di risultati utili consecutive con ben 25 vittorie, dimostrando di meritare il titolo.»

Ti ringraziamo molto, Manuel!

A proposito: per chi non lo sapesse, il nome della squadra, e della città, si pronuncia Kilmàrnock, con l’accento sulla “a”.


Emanuele Giulianelli